I colori dell'arcobaleno esercitano un enorme fascino non solo sui bambini, ma anche sugli adulti e sugli scienziati. Del resto, come disse Marie Curie, prima e unica donna al mondo ad aver vinto due premi Nobel, uno per la fisica e l'altro per la chimica:
Uno studioso nel suo laboratorio non è solo un tecnico, è anche un bambino messo di fronte a fenomeni naturali che lo impressionano come una fiaba.
(Marie Curie)
E tale doveva apparire il giovane scienziato inglese Isaac Newton (1642-1727) quando, dopo aver lasciato il Trinity College di Cambridge, durante i mesi terribili della peste, tra l'agosto del 1665 e l'aprile del 1667, si rifugiò in campagna, nella tenuta di famiglia nel Lincolnshire, a Woolsthorpe, dove era nato 23 anni prima e dove riuscì a scampare all'epidemia, attraversando un periodo di intenso lavoro e incredibile produttività scientifica, che gli permise di sviluppare le nuove idee che la sua mente geniale stava già, segretamente, covando.
Dopo essersi dedicato per alcuni mesi a problemi di natura matematica, dai quali in seguito sviluppò la teoria del calcolo infinitesimale, passò agli studi nel campo dell’ottica, eseguendo i suoi famosi esperimenti sulla scomposizione della luce attraverso un prisma di vetro, ponendo quindi le basi per una nuova teoria della luce e dei colori, di cui presentò alla Royal Society un resoconto che apparve nel 1672 nella rivista “Philosophical Transactions”.
Nello stesso periodo Newton iniziò a riflettere sulla possibilità di unificare la fisica di Galilei e le leggi di Keplero sui moti planetari attraverso una legge di gravitazione universale, teoria che illustrò insieme ai suoi famosi tre principi della dinamica, nel suo capolavoro del 1687, intitolato “Philosophiae Naturalis Principia Mathematica”, ovvero “I principi matematici della filosofia naturale”, pietra miliare della fisica classica.

Si può quindi dire che il 1666 fu per il grande scienziato un Annus Mirabilis (come il 1905 lo fu per il suo futuro collega Albert Einstein), durante il quale la libertà dalle pressanti attività accademiche gli permise di dedicarsi a tempo pieno agli studi e agli esperimenti che lo portarono a gettare semi fecondi per la matematica e per la fisica, rivoluzionando la storia della scienza ed aprendo all'uomo la via per una comprensione della “compagine elegantissima del sistema del mondo”.
Come ebbe a scrivere lo stesso Newton, ripensando a quel periodo, quando ormai i suoi giorni volgevano al termine:
Ciò accadeva durante gli anni della peste del 1665 e 1666; infatti in quei giorni ero nel fiore degli anni quanto alle invenzioni, e mi occupavo di matematica e di filosofia più che in qualsiasi altro periodo successivo.
Filosofia intesa nel senso, usato all'epoca, di “filosofia naturale”, cioè indagine fisica sul mondo e sui fenomeni naturali. Ma, in realtà, si potrebbe anche intendere nel suo significato etimologico di “amore per la sapienza”.
Come scrisse Whiteside, un esperto studioso dell'opera di Newton, negli anni della peste “era nato un matematico” capace di compiere “errori profondi” ma dotato di un genio così penetrante da trasformare il giovane studente appena laureato del Trinity Collge in un vero e proprio scienziato, che in seguito avrebbe ottenuto risultati memorabili approfondendo tutta une serie di questioni diverse, ma tra loro correlate: la struttura corpuscolare della materia e della luce, le leggi che descrivono il moto dei corpi e quello dei pianeti, il rapporto tra creazione divina e regolarità del cosmo, l’astronomia e la chimica, gli sviluppi della matematica e le sue applicazioni alla risoluzione di problemi fisici.
Ed è sorprendente pensare che tutto ciò ebbe inizio anche grazie ad un periodo di studi condotti in solitaria da una mente sicuramente ingegnosa e brillante, ma lontana degli ambienti scientifici ufficiali, libera di imparare e ragionare a suo modo, con la curiosità e la libertà di esplorare che sono tipiche di ogni bambino, ma che difficilmente noi adulti riusciamo a coltivare, presi come siamo dai mille impegni, incombenze e doveri quotidiani.
A meno che….
A meno che non arrivi un'epidemia ad obbligarci a fermarci, ad isolarci e a permetterci di condurre le nostre ricerche e coltivare i nostri interessi con lo stesso spirito libero, puro, critico e indagatore di un fanciullo innocente, procedendo ai nostri ritmi naturali e lasciandoci guidare da ciò che più ci affascina.
Ovviamente l'intensa vita scientifica di Newton, che visse ben 84 anni (circa il doppio dell'età media dell'epoca!), non può essere spiegata solo con qualche guizzo geniale piovuto dal cielo. Fu piuttosto un sistematico, faticoso, feroce lavoro di studio, ricerca, analisi, riflessione e sperimentazione, che si sviluppò nel tempo, lentamente ma inesorabilmente.
I frutti di quel lavoro, infatti, diventeranno noti e famosi solo vent'anni dopo, nel 1687. Ciò nonostante, fu proprio mentre Newton era in campagna, lontano da Cambridge a causa della peste, che avvennero due degli episodi più noti della sua carriera: l'esperimento sulla natura della luce e dei colori, che diventerà uno dei più belli della storia della fisica, e l'episodio della mela caduta dall'albero, che si trasformerà in una delle più famose leggende della scienza.
Riguardo alla storia della mela, riporto di seguito un racconto del genero dello scienziato, John Conduitt, tratto dal libro “Newton, la mela e Dio” di Vincenzo Palermo:
Nell'anno 1666 Newton si era ritirato da Cambridge, andando da sua madre nel Lincolnshire. Mentre vagava pensieroso in un giardino, pensò che il potere della gravità (che faceva cadere una mela da un albero) non fosse limitato ad una certa distanza dalla Terra, ma che doveva estendersi molto più in là di quello che tutti pensavano.
Magari, disse tra sé e sé, anche sino alla Luna, influenzando il suo moto, e magari mantenendola sulla sua orbita? Così cominciò a fare calcoli per verificare la sua ipotesi.
L’idea che Newton ebbe nel giardino, ispirato dalla mela, e che poi elaborò nei vent'anni successivi, era meno banale di quello che può sembrare a noi uomini del ventunesimo secolo: il suo enorme salto concettuale consistette nell'ipotizzare che la stessa legge che agiva su una mela potesse agire anche sulla Luna e, ancora più in là, su tutti gli altri corpi celesti. E non si limitò a proporre ipotesi qualitative, ma usò tutta la potenza della sua matematica per dimostrare questa idea, a partire dalle formule di Galileo sul moto accelerato e quelle di Keplero sul moto dei pianeti.
Allo stesso modo, anche le sue intuizioni sulla natura della luce e dei colori furono rivoluzionarie per l'epoca e, nonostante le difficoltà dei suoi esperimenti, riuscì a dimostrare in maniera ineccepibile che la luce bianca è prodotta dalla perfetta miscela di tutti i colori dell’arcobaleno.

Mi è capitato di dover spiegare ai bambini il fenomeno della scomposizione della luce attraverso un prisma: spesso, nella loro semplicità, i bimbi pensano che i colori dell'arcobaleno, prima di apparire, siano nascosti dentro al prisma e che la luce serva semplicemente ad illuminarli per mostrarceli; ma poi, dopo una breve spiegazione, capiscono che succede l'esatto contrario: a nascondere i colori dentro di sé è infatti il raggio luminoso, mentre il prisma è soltanto un eccellente strumento che, facendosi attraversare dalla luce bianca e diffondendo ad angoli diversi le differenti lunghezze d’onda dei vari colori che la compongono, riesce a separarli, rendendo quindi manifesta la loro silenziosa presenza.
Oggi noi lo sappiamo e possiamo spiegarlo ai bambini proprio grazie agli esperimenti di Newton, che fu il primo ad intuire che i sette colori dell’arcobaleno in uscita dal prisma sono l’effetto della scomposizione del raggio in entrata operata dal prisma stesso, e non una proprietà insita in tale oggetto: i colori sono insomma una caratteristica intrinseca della luce, non una qualità dei corpi, come si riteneva all'epoca.
Il prisma fungeva solo da separatore, era un rivelatore, uno strumento di indagine. L’epidemia fungeva invece da rallentatore, dilatatore, offrendo un'insolita opportunità di studio e, soprattutto, di approfondimento. Senza il prisma la luce non avrebbe mostrato al genio la sua vera natura policromatica; senza l’epidemia il genio forse non avrebbe avuto la possibilità di fare tutti gli esperimenti necessari per comprendere il legame tra luce e colori e per spiegare l'arcobaleno. Servivano sia lo strumento rivelatore, che il rallentatore. Uno solo dei due non sarebbe stato sufficiente.
Come un prisma di vetro attraversato da un raggio di sole rivela agli occhi increduli di un bambino (o in questo caso di uno scienziato) la vera natura della luce, che non è semplicemente “bianca”, ma è composta da tutte le sfumature dell’arcobaleno, così ci sono persone, risorse, esperienze e libri che ci permettono di rispecchiarci in essi come in un cristallo prezioso e così ci rivelano i nostri più intimi colori. A me è successo soprattutto con alcune donne e uomini, che mi hanno fatto da Maestre/i, con la respirazione circolare consapevole, con la lettura e con la scrittura. Ma può succedere anche con la meditazione, la preghiera, lo yoga, lo sport o mille altri tipi di esperienze.
Credo che tutti noi abbiamo il diritto e il dovere di trovare il nostro prisma, inteso come lo strumento di indagine personale a noi più adatto, quello cioè capace di ricordarci che anche noi siamo delle luci in grado di risplendere non di un solo colore, ma di una gamma infinita di sfumature: dei veri e propri raggi di sole, divini, completi ed integri, ma anche capaci di scegliere di diffondere intorno a noi le frequenze che preferiamo.
E allo stesso modo, senza necessariamente dover aspettare l'occasione di un’epidemia (ma se già c'è, perché non approfittarne?) abbiamo anche il diritto e il dovere di trovare quel nostro tempo dilatato che ci permetta di fare tutte le prove e gli esperimenti di cui abbiamo bisogno, dandoci il permesso di rallentare, di andare più a fondo, di osservare ed osservarci attraverso lo strumento di indagine che farà più al caso nostro, in modo da poter scoprire e mettere a frutto i nostri tesori nascosti, i nostri talenti, le nostre passioni, ciò che fa battere il nostro cuore e brillare i nostri occhi, al punto tale da trasformare la loro fulgida luce in arcobaleni meravigliosi.
Dobbiamo imparare a ritornare bambini, per poter sperimentare noi stessi e la nostra realtà come veri e propri scienziati.
Come del resto scrisse lo stesso Newton in merito alle proprie scoperte:
Non so come posso apparire al mondo; a me sembra di essere stato solo come un bambino che gioca sulla spiaggia, divertendosi nel trovare un sasso più liscio del solito, o una conchiglia più bella, mentre il grande oceano della verità si estendeva, inesplorato, di fronte a me.
E se nel primo dei tre libri della sua opera intitolata “Ottica”, la cui prima edizione risale al 1704, lo stesso scienziato scrisse:
Il mio scopo in questo libro è di spiegare le proprietà della luce non mediante ipotesi, bensì di proporle e di provarle mediante la ragione e gli esperimenti.
nella parte finale della stessa opera concluse che:
In questo terzo libro ho soltanto iniziato l’analisi di ciò che rimane da scoprire sulla luce e sui suoi effetti sul sistema della natura.
Chi legge l’Ottica o i manoscritti di Newton non può che rendersi conto di quanti problemi fossero rimasti insoluti accanto a quelli risolti nei Principia, e di come lo stesso scienziato fosse cosciente dell'ampiezza dell'ignoto e delle difficoltà che dovevano ancora essere superate per garantire la validità delle soluzioni date al sistema del mondo.
Come ebbe a scrivere a tal proposito Einstein:
Newton stesso era ben più cosciente della debolezza insita nel suo edificio intellettuale di quanto non lo fosse la generazione di dotti scienziati che gli seguì. Questo fatto ha sempre destato la mia più profonda ammirazione.
Come non apprezzare l'umiltà di un tale scienziato che, pur essendo una delle menti più brillanti di tutti i tempi, ammetteva la propria incapacità di svelare ogni mistero?
Ammirevole fu anche la sua capacità di riconoscere l’importanza del contributo dei propri predecessori al raggiungimento dei propri risultati, espressa con la famosa frase:
Se io ho visto più lontano, è stato perché stavo sulle spalle dei giganti.
Un'enorme, famelica, insaziabile sete di conoscenza, una testarda capacità di perseguire i propri obiettivi, curiosità ed impegno, dedizione e concentrazione, caparbietà e capacità di trasformare una crisi come la peste in un'opportunità di studio e approfondimento, umiltà e gratitudine nei confronti dei propri maestri: ecco le principali lezioni che possiamo trarre da questo piccolo spaccato di vita del grande uomo Isaac.
Cerchiamo di ricordare anche queste, insieme a quelle dell'altrettanto grande scienziato Newton che si studiano ancora sui libri di scuola riguardo al calcolo differenziale, all'ottica, alla meccanica e alla gravitazione universale, perché, nella grande Scuola della Vita, ci saranno forse più utili delle sue famose formule fisiche e matematiche.
Fonti
Newton, l'epidemia di peste e la scoperta delle leggi dell'ottica:
“Storia della Scienza. Vol. 1. La rivoluzione scientifica: dal Rinascimento a Newton” – Edizione speciale realizzata per Gruppo Editoriale L’Espresso diretta da Paolo Rossi
Podcast “Fottuti Geni” di Massimo Temporelli - Episodio 14 | Isaac Newton:
https://podcasts.apple.com/it/podcast/fottuti-geni/id1395999068?i=1000466802334
Libri citati:
Newton, la mela e Dio
La nascita della fisica moderna.
Tra scienza, alchimia e religione
Autore: Vincenzo Palermo
Editore: Hoepli
Il racconto affascinante della vita di uno scienziato che sconvolse la matematica, la fisica e l'astronomia e che fu anche definito "l'ultimo dei maghi", per il suo spirito inquieto, bruciato da una curiosità maniacale che spaziava dalla scienza, alla religione, all'alchimia.